La Cina è riuscita in un vero “miracolo” industriale che ha consentito non solo di colmare un gap di competenze e conoscenze significative, ma di proporsi come innovatore principali in ampi settori. Questo “miracolo” appare ancora più evidente se si guardano i dati sugli investimenti in Ricerca e Sviluppo (R&D).
Negli ultimi mesi diversi osservatori, oltre che esponenti istituzionali, hanno ragionato sulle politiche di espansione economica messe in atto dalla Cina a partire dalla “Via della Seta” e di come questa sia funzionale agli interessi geopolitici cinesi oltre che uno strumento di espansione economica di quel Paese. Prima di me autorevoli autori come Paolo Messa con il suo libro “Sharp Power” e Gianluca Ansalone con “Geopolitica del Contagio”, hanno argomentato come, a differenza dei Paesi Occidentali, le iniziative promosse dal governo Cinese negli ultimi 30 anni possono essere lette come tasselli di una strategia globale di lungo periodo che mira a rafforzare la valenza geopolitica della Cina, la sua area di influenza operando con una strategia di penetrazione in diversi mercati ed economia: strategia che ha consentito alla Cina di diventare dal 2028 la principale economia mondiale. Questi risultati sono stati ottenuti anche grazie ad una capacità delle aziende cinese di essere leader in molti dei settori high-tech a partire dal settore delle telecomunicazioni.
Eppure l’economia Cinese fino agli anni ’90 era una economia ancora fortemente rurale con limitata propensione all’innovazione tecnologica.
Nel breve volgere di 30 anni la Cina è riuscita in un vero “miracolo” industriale che ha consentito non solo di colmare un gap di competenze e conoscenze significative, ma di proporsi come innovatore principali in ampi settori. Questo “miracolo” appare ancora più evidente se si guardano i dati sugli investimenti in Ricerca e Sviluppo (R&D) che evidenziano come, rispetto ad altre nazioni il numero di ricercatore per milione di abitanti, così come la spesa in R&D in termini di prodotto interno, lordo è significativamente inferiore a quella dei Paesi occidentali.
Fonte: https://www.rdworldonline.com/2019-rd-global-funding-forecast/
Alla luce dell’analisi comparativa degli investimenti R&D, i risultati conseguiti dalle aziende cinesi evidenziano una estrema, si potrebbe dire quasi eccessiva, efficienza nella spesa in R&D. Infatti pur spendendo la metà in rapporto al PIL rispetto ai paesi più avanzati e, soprattutto, avendo un quinto nel numero di ricercatori per abitanti, la Cina riesce a primeggiare in moltissimi campi tecnologici. Questo paradosso trova in parte una spiegazione, più che una giustificazione, nella distribuzione della spesa in R&D in Cina. Infatti mentre la quasi totalità dei paesi industrializzati evidenzia una crescita lineare degli investimenti in ricerca, la spesa in R&D cinese mostra un incremento esponenziale.
Fonte: https://www.nsf.gov/statistics/2020/nsf20304/overview.htm
Quello che però appare sorprendente dall’analisi di questo grafico è la diversa ripartizione delle spese R&D per tipologia di destinazione. Il grafico evidenzia, infatti, che mentre gli investimenti cinesi in Sviluppo Sperimentale (ovvero su quelle attività di R&D più prossime al mercato – sostanzialmente a livello TRL6 – TRL9) sono significativamente cresciute nel tempo arrivando a superare le spese negli Stati Uniti, lo stesso non può dirsi per la ricerca applicata (TRL3-TRL6) che, pur evidenziando una crescita sebbene con diversi anni di ritardo rispetto a quella sperimentale, si attesta su un valore pari a circa la metà di quello degli USA. Questo gap è ancora più evidente se si confronta la spesa per ciò che attiene la ricerca di base (TRL1-TRL3).
L’analisi comparativa di questi grafici apre la porta ad alcune supposizioni circa le strategie adottate dalla Cina per rendere maggiormente efficaci i propri investimenti. Infatti, mentre per tutte le altre nazioni la crescita è sostanzialmente uniforme per tutte e tre le tipologia di ricerca, per la Cina questo appare solo parzialmente vero. In altri termini quello che pare emergere è una capacità di innovazione tecnologica slegata, ovvero solo parzialmente supportata, dalla ricerca di base, aspetto questo ritenuto da tutti gli esperti di ricerca non sostenibile. Questa incoerenza dà adito ad ipotizzare che parte della capacità di innovazione cinese possa trovare origine diversa da una normale evoluzione delle conoscenze interne, ovvero che la Cina nella sua globalità sia in grado di “assorbire” e valorizzare gli sforzi fatti da altri riuscendo in questo modo ad efficientare i proprio risultati in termini di introduzione di prodotti innovativi sul mercato.
In questa ottica trova la sua collocazione il programma Thousand Talents Recruitment Programme (TTP) il cui scopo è il reclutamento di personalità autorevoli nel campo della ricerca scientifica e tecnologica. Il TTP mira, nello, specifico a favorire la presenza di studiosi internazionali all’interno di istituzioni cinesi con contratti part-time che consentono allo studioso di poter trascorrere una quota parte del proprio tempo in Cina senza dover rinunciare alla propria posizione all’estero. Gli Stati Uniti hanno sollevato critiche sul TTP ritenendo che esso si configuri come uno strumento per acquisire in modo non trasparente, se non addirittura illecito, known-how e competenze frutto degli investimenti in R&D promossi dagli Stati Uniti. In estrema sintesi, secondo il governo americano, il programma favorendo la presenza di queste personalità all’interno di istituzioni cinesi, ne sfrutta le competenze e le conoscenze per annullare gap culturali e tecnologici e quindi “favorire” l’attuazione di attività di ricerca sperimentale nonostante il substrato culturale cinese non esprima un adeguato volume di attività di ricerca di base. Alla base di tali accuse è la costatazione che molti dei ricercatori beneficiari del programma TTP duplicano i propri laboratori conducendo in modo parallelo le proprie ricerche sia negli Usa che in Cina, in questo modo – a detta delle istituzioni statunitensi – la Cina beneficia in modo indiretto degli investimenti in R&D promossi dagli USA.
A riprova del fatto che la cooperazione non sia del tutto trasparente è l’atteggiamento non sempre etico dei ricercatori che ne beneficiano. Infatti il rapporto USA evidenziano che molti dei docenti beneficiari dei contratti TTP omettono di comunicare alle loro istituzioni di origine l’esistenza e le implicazioni dei contratti. Attualmente sono diverse centinaia i ricercatori statunitensi sotto inchiesta per aver taciuto i finanziamenti e le ricerche svolte fra cui anche Alan List direttore del Thomas Sellers, il più importante centro americano per lo studio del cancro.
Come testimoniato da recenti interviste apparse su alcuni organi di stampa, anche diversi studiosi italiani beneficiano dei programmi messi in campo dalla Cina che offre loro, a differenza di quanto possono trovare in Italia, occasioni di carriera e sviluppo. Il più delle volte non con contratti di esclusiva, ma favorendo come nel caso del TTP, lo sviluppo di attività di ricerca “parallele” a quelle che loro potano avanti in Italia. Peccato che questo schema, anche alla luce della minore propensione all’imprenditorialità dei nostri atenei, rischia di far perdere al Paese oltre che i nostri cervelli anche i risultati delle “nostre” ricerche. In questo contesto la cosa più sorprendente è che non esiste alcuna analisi che consenta di valutare in modo oggettivo il fenomeno al dì là di singoli episodi più o meno di successo o più o meno eclatanti, forse è arrivato il momento di iniziare a monitorare con maggior attenzione questi fenomeni.