Alla grande capacità di utilizzo dei social network non corrisponde un’analoga minaccia sotto il profilo del cyberhacking. Le azioni di guerra cibernetica sono state molteplici, ma limitate a far apparire messaggi o immagini su siti governativi o di informazione occidentali
La propaganda sui social network è una delle armi principali, forse la strategicamente più importante, dell’Isis. Il sedicente Stato Islamico fa proselitismo, arruola, rivendica, si appropria delle azioni terroristiche e diffonde il suo messaggio di morte tramite un utilizzo sistematico della rete. Ma quando si tratta di cyberhacking il discorso si fa diverso. Fino ad ora, per fortuna, l’Isis non è riuscito a creare una vera squadra organizzata di hacker. Ma più recentemente il gruppo sta provando il salto di qualità. Sperando che non gli riesca…
L’Isis è sempre in vantaggio nella guerra dei social
Ci sono tante guerre parallele in questo principio di terzo millennio. C’è la guerra sul campo, che si combatte in Siria o in Yemen. C’è la guerra asimmetrica delle azioni terroristiche che si susseguono ormai senza sosta in Medio Oriente, Africa e anche Europa, diventato teatro di attentati a ripetizione a partire dal gennaio 2015 e la strage alla redazione di Charlie Hebdo a Parigi. Esiste poi un conflitto più sottile ma che si può considerare a tutti gli effetti una guerra. Una guerra che si combatte sui social media e che vede l’Isis in netto vantaggio. L’utilizzo di Facebook, Twitter e altri network da parte dei militanti jihadisti è spaventosamente puntuale. Il web viene utilizzato come strumento di propaganda, bacino di affiliazione, cassa di risonanza, raccolta di fondi, forum e diffusione di manuali di addestramento. E contenere il messaggio propugnato online è davvero un’operazione complessa. La struttura stessa della rete consente la proliferazione di diverse ramificazioni. Lo Stato Islamico utilizza, direttamente o indirettamente, innumerevoli account. Come tanti hydra, ce ne sono sempre di nuovi pronti a nascere quando uno di loro viene scoperto e bannato. Il meccanismo di condivisione e diffusione appare al momento praticamente irrefrenabile. Ed è proprio questo meccanismo così fluido a costituire una delle armi più forti a disposizione del jihad. Non è un caso che Google ha stimato che nel solo mese di febbraio 2016, pochi mesi dopo gli attentati terroristici di Parigi, 50 mila persone avevano utilizzato la chiave di ricerca “join Isis” (unirsi all’Isis).
Gli hacker dell’Isis? Deboli e disorganizzati
Alla grande capacità di utilizzo dei social network non corrisponde, almeno per adesso, un’analoga minaccia sotto il profilo del cyberhacking. Le azioni di guerra cibernetica degli affiliati o simpatizzanti dello Stato Islamico sono state molteplici negli scorsi anni ma si sono per lo più limitate a far apparire messaggi o immagini su siti governativi o di informazione occidentali. Uno degli esempi più recenti l’attacco a diversi siti istituzionali tra cui quello della National Health Service del Regno Unito, durante il quale sono stati mostrati video brutali della guerra in Siria. Tra gli ultimi casi, un messaggio inneggiante all’Isis comparso su un sito governativo dello stato americano di Washington lo scorso 25 giugno. Lo stesso giorno parecchi siti istituzionali sono stati bloccati da hacker riconducibili allo Stato Islamico in diversi Stati Usa tra cui Ohio, Maryland e New York. Un campanello d’allarme?