Washington e Riyadh sono più vicini di quanto si pensi nel dominio cibernetico. Nel 2021, l’Arabia Saudita si è classificata al secondo posto – proprio alle spalle degli Stati Uniti – e primo nel mondo arabo nel Global Cybersecurity Index (GCI), pubblicato dall’International Telecommunication Union, l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata in ICT.
I pilastri sui quali gli Stati Uniti hanno storicamente costruito la propria strategia in Medio Oriente (e più in generale nell’area cd MENA – Middle East and North Africa) sono quello energetico e quello relativo al settore della sicurezza. Queste aree d’interesse hanno a lungo caratterizzato le relazioni bilaterali e multilaterali tra Washington e le varie capitali mediorientali, specialmente nella seconda metà del XX secolo.
Più di recente, l’attenzione è parsa progressivamente spostarsi verso il mondo della tecnologia e, in particolare, il settore della cybersicurezza. L’avanzata politico-commerciale cinese nell’area, il riacutizzarsi delle tensioni tra Israele e Palestina così come il conflitto in Yemen rappresentano importanti fattori di spinta per gli Stati Uniti, il cui obiettivo è la ristrutturazione di un rapporto di fiducia che ultimamente pareva essersi scucito.
La firma, lo scorso novembre, di un Joint Statement sui flussi di dati trans-frontalieri con gli Emirati Arabi Uniti ha manifestato il fermo interesse della Casa Bianca a ristabilire la propria presenza negli affari regionali. Nello specifico, l’accordo mira alla creazione di framework comuni per la protezione contro possibili data breach, violazioni delle informazioni personali e, allo stesso tempo, la semplificazione delle norme che regolano la condivisione dei dati. L’obiettivo è quello di incentivare lo sviluppo economico regionale e rafforzare la sicurezza bilaterale.
L’acuirsi di episodi legati alla cd cyberwarfare, ovvero l’utilizzo di attacchi informatici per danneggiare le attività degli organi governativi, ha reso infatti necessaria la dotazione di reti di sicurezza sempre più affidabili. In questo contesto, gli Stati Uniti costituiscono un partner quasi insostituibile come peraltro evidenziato in occasione dell’incontro tenutosi nel luglio dell’anno scorso tra il Presidente Biden e i leader dei Paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). Non a caso la visita coincise con il Jeddah Security and Development Summit, il primo storico incontro di questo tipo tra i capi di Stato dei sei Paesi membri del Consiglio (Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) e tenutosi nella stessa città saudita. Il Regno di Salman bin Abdulaziz Al Saud è infatti uno dei Paesi che negli anni ha più subito gli effetti di questa nuova definizione di conflitto.
Al pari di altri attori regionali, l’Arabia Saudita ha intrapreso un processo di normalizzazione istituzionale con Israele, sebbene Riyadh non ne abbia mai ufficialmente riconosciuto l’indipendenza. La firma degli Accordi di Abramo, nel 2020, segnò un passaggio chiave nella ridefinizione dei rapporti diplomatici tra Tel Aviv e il mondo arabo. Tuttavia, il rafforzamento dei legami diplomatici con Israele contribuirono a porre la nazione del Golfo nel mirino di gruppi hacker di base in Iran, nazione a confessione sciita e storico sostenitore della causa palestinese nonché finanziatore di gruppi terroristici di matrice anti-israelita. Nel 2012, il gruppo iraniano autoproclamatosi “Cutting Sword of Justice” portò a termine quello che, ancora oggi, resta uno dei più grossi attacchi malware della storia. Attraverso un wiper chiamato “Shamoon” riuscì a penetrare le difese informatiche della compagnia petrolifera saudita Saudi Aramco cancellando i dati contenuti in circa 35.000 terminali. Successivamente, nel 2017, la stessa compagnia nazionale degli idrocarburi fu nuovamente colpita da un cyber attacco mirato a danneggiare i sistemi di sicurezza di uno dei suoi impianti così come altre istituzioni saudite furono prese di mira da attacchi malware, alcuni dei quali simili a Shamoon e dunque riconducili a fonti iraniane.
Da allora, l’Arabia Saudita si è velocemente attrezzata per rafforzare le proprie difese cibernetiche. Pubblicato nel 2017, il piano strategico Vision 2030 ha gettato basi importanti per lo sviluppo di un vero e proprio “modello saudita” che guarda alla cyber sicurezza come a un volano per accrescere la competitività del settore pubblico. Successivamente, nel 2020, fu avviato il National Transformation Program 2020 per velocizzare il raggiungimento degli obiettivi di trasformazione digitale previsti da Vision 2030 attraverso l’individuazione delle sfide e fornendo il governo saudita di processi incentrati su di esse.
Oggi, Washington e Riyadh sono più vicini di quanto si pensi nel dominio cibernetico. Nel 2021, l’Arabia Saudita si è classificata al secondo posto – proprio alle spalle degli Stati Uniti – e primo nel mondo arabo nel Global Cybersecurity Index (GCI), pubblicato dall’International Telecommunication Union, l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata in ICT. Il risultato ha fatto registrare un salto di ben 46 posizioni rispetto al rapporto pubblicato nel 2017, anno nel quale fu lanciato Vision 2030.
Sin dalla creazione della Global Coalition nel 2014 in funzione anti Daesh, gli Stati Uniti collaborano con le autorità di Riyadh fornendo alta formazione specializzata a rafforzare le difese informatiche nazionali. Ciò nonostante, una maggiore cooperazione tecnologica è nell’interesse di entrambe le nazioni. Un primo passo potrebbe essere rappresentato dalla costruzione di un framework comune per lo scambio dei dati sulla scia del Joint Statement tra Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti.
Tra l’altro, la scelta sarebbe oltre modo coerente con la partnership che il Regno saudita ha già stretto con vari partner statunitensi come India, Corea del Sud e la stessa Abu Dhabi. Dal lato statunitense, un accordo più esteso nel settore della cybersicurezza con l’Arabia Saudita riconsegnerebbe a Washington un ruolo centrale nell’ecosistema tecnologico mediorientale, anche in chiave anticinese e nonostante il recente sforzo diplomatico di Pechino sembri essere riuscito nell’impresa di riavvicinare i governi di Riyadh e Teheran.