Da un recente report è emerso come la Cina, attraverso i propri media controllati direttamente dallo Stato, sia in grado di influenzare i risultati dei motori di ricerca più utilizzati nel mondo.
“Quando scoppia la guerra, la prima vittima è la verità”,
Hiram Johnson (1917)
Propaganda e manipolazione delle informazioni sono armi note sin dall’antichità come mezzi per spezzare il morale del nemico e vincere le guerre. E non esiste luogo più favorevole del dominio cibernetico per combattere un conflitto basato sulla distorsione dei fatti, sulla disseminazione di notizie fuorvianti e sulla mistificazione della realtà.
Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi report su questo argomento, diventato ancora più attuale per via della pandemia e, negli ultimi mesi, a causa della guerra in Ucraina e delle continue campagne di propaganda portate avanti dagli attori coinvolti.
Ovviamente, quando si parla di disinformazione e fake news la prima cosa a cui si pensa sono i social network, ma non ci sono solamente i falsi account Twitter, le pagine complottiste su Facebook e i disinformatori su Telegram. Esiste un ambito a cui prestiamo meno attenzione e a cui sono stati dedicati meno studi di settore, ma che è altrettanto importante e può influenzare gli utenti della rete persino più dei social media: i motori di ricerca.
Il COVID è americano e nello Xinjiang va tutto bene. L’arte di creare la propria verità
Alla fine del mese di maggio del 2022 è stato pubblicato un report scritto da alcuni autori di due dei più importanti think tank dedicati alla geopolitica: Brookings Institution e German Marshall Fund Alliance for Securing Democracy (ASD).
Il titolo è sicuramente molto evocativo “Winning the web: How Beijing exploits search results to shape views of Xinjiang and COVID-19” e pone l’accento su una questione fondamentale che spesso però viene trascurata da chi si occupa di propaganda in rete e guerre cibernetiche: l’importanza dei motori di ricerca e dei risultati che restituiscono agli utenti.
Da questo report è emerso come la Cina, attraverso i propri media controllati direttamente dallo Stato, sia in grado di influenzare i risultati dei motori di ricerca più utilizzati nel mondo. In particolare, lo studio ha evidenziato come il governo di Pechino abbia sfruttato i risultati restituiti dai principali motori di ricerca (Google e Bing), dai siti aggregatori di notizie (Google News e Bing News) e da YouTube per costruire una narrazione più favorevole alla Cina riguardo alcuni temi considerati critici: il COVID-19 e la regione dello Xinjiang.
È un meccanismo semplice: si producono tantissimi contenuti che riportano le informazioni desiderate e si sotterrano (in senso digitale) le fonti che vogliamo nascondere.
Fate una prova: aprite Google, Bing, Google News, Bing News e YouTube e cercate alcuni termini neutri come “Xinjiang” (per chi non lo sapesse, si tratta di una regione cinese in cui il governo di Pechino sta mettendo in atto da tempo campagne di internamento e sostituzione etnica ai danni della popolazione autoctona degli Uiguri, al punto che oggi sempre più spesso si sente parlare di “genocidio”).
Presumibilmente non vi saranno restituiti risultati particolarmente anomali sui motori di ricerca web. Al contrario, sugli aggregatori di notizie e su YouTube è alquanto probabile che vedrete notizie provenienti da fonti governative cinesi o da media legati a Pechino, che spesso riguardano la crescente economia della regione.
Secondo quanto riportato nello studio citato prima, le notizie sullo Xinjiang provenienti da fonti filogovernative cinesi compaiono tra i primissimi risultati dei siti aggregatori di notizie nell’88% dei casi, mentre su YouTube la percentuale arriva addirittura al 98% (soprattutto se la ricerca effettuata non è particolarmente “neutra”). Al contrario, le ricerche web subiscono questa influenza in percentuale nettamente inferiore.
Nel caso del COVID-19, al contrario, le ricerche effettuate inserendo termini neutrali risultano molto “pulite”, probabilmente per via dell’enorme lavoro di moderazione dei contenuti messo in atto dalle principali piattaforme durante la pandemia. Ma anche in questo caso l’operazione di contronarrazione cinese è riuscita a mostrare tutte le sue capacità. Infatti, dall’inizio della pandemia l’attività di disseminazione di notizie false riguardo l’origine del COVID-19 è stata pressoché incessante e oggi non è raro imbattersi in notizie che attribuiscono la colpa della pandemia agli Stati Uniti e in particolare a un laboratorio nel Maryland.
Provate ad andare su Google News o YouTube o Bing e cercate “Fort Detrick”, poi verificate l’origine delle fonti dei risultati che avrete ottenuto.
Cina: come si combatte la guerra del web
Lo scopo di tutto questo gigantesco apparato di propaganda è solo uno: favorire la narrazione di una buona Cina e mitigarne la percezione nel mondo, rendendo più sfocata l’immagine del regime autoritario e repressivo che non rispetta i diritti umani.
Per raggiungere questo scopo è stato necessario adottare linguaggi e terminologie adeguati, non solo per le questioni di Xinjiang e COVID-19, ma anche per Hong Kong e Taiwan. Un esempio calzante di quest’uso del lessico per ridisegnare la realtà è dato dalla strategia utilizzata dai media cinesi per contronarrare il genocidio degli Uiguri. Il primo passo è stato quello di definirlo come “la bugia del secolo” per poi spostare l’attenzione su un altro argomento, inondando la rete di contenuti con specifici hashtag che rimandavano a un altro genocidio: quello dei nativi americani.
Proprio per questi motivi, nel report in questione vi è un lungo capitolo dedicato alle possibili contromisure attuabili sia dalle aziende che gestiscono i motori di ricerca -ad esempio proponendo sistemi per “etichettare” i siti web, identificando quelli che promuovono contenuti di maggiore qualità e distinguendoli da quelli che operano per disseminare disinformazione- sia dai creatori di contenuti, che dovrebbero adottare sistemi per portare in alto nei motori di ricerca i propri articoli adattandoli alle abitudini di ricerca degli utenti della rete.
È difficile prevedere come evolverà nei prossimi anni la guerra delle narrazioni: se prevarrà una rete il più possibile “pulita” e senza contenuti pilotati da attori statali e non (almeno per quanto riguarda le democrazie occidentali) o se i motori di ricerca e gli aggregatori di notizie finiranno sepolti dagli articoli creati appositamente dagli apparati di propaganda.
L’unica certezza, purtroppo, è che finora la grande vittima di questa guerra mondiale digitale è stata la verità.