Decine di milioni di set di dati raccolti illecitamente sulla rete sociale e condivisi con terzi per supportare la campagna elettorale di Donald Trump. La piattaforma di Zuckerberg nel mirino del Congresso USA e del Parlamento britannico.
È forse una delle più grandi violazioni della privacy dalla nascita di Facebook. I dati personali di 50 milioni di utenti Facebook “sono stati utilizzati in maniera inappropriata”. È stato lo stesso social network ad annunciare il blocco di alcuni account riconducibili ad una società di marketing e ricerca, Cambridge Analytica.
Al momento, stando alle comunicazioni ufficiali provenienti dalla rete di Mark Zuckerberg, non si tratterebbe di sottrazione di informazioni sensibili (password, credenziali di carte di credito e accesso ai conti bancari online), ma di dati personali ottenuti attraverso i profili Facebook degli utenti.
A quanto pare, l’azienda sul banco degli imputati è nata per volontà dell’imprenditore Robert Mercer, pubblicamente conosciuto come sostenitore di Donald Trump.
Proprio nelle ultime elezioni americane del novembre 2016, la Cambridge Analytica ha svolto un’azione di monitoraggio dell’elettorato statunitense sulla rete sociale per conto dello staff di Trump, con l’obiettivo di condizionare in qualche modo l’opinione pubblica, attraverso strategie persuasive tipiche del marketing pubblicitario.
Per far questo, però, si sono serviti di enormi set di dati, decine di milioni di dati relativi a altrettanti utenti.
A dar corpo e forza all’impresa, ad un certo punto, è entrato anche Steve Bannon, chiacchierato consigliere e stratega di Trump, mentre il lavoro sporco è lasciato ad Aleksandr Kogan, psicologo dell’Università di Cambridge, esperto di big data, sviluppatore dell’applicazione “thisisyourdigitallife”.
L’app incriminata (un semplice test sulla personalità) è stato lo strumento attraverso il quale, questo variegato team di politici, imprenditori, accademici e sviluppatori, ha iniziato ad accumulare dati personali sugli utilizzatori, condividendoli con terze parti e quindi violando le regole imposte da Facebook (che sembra essere a conoscenza del problema dal 2015).
Addirittura, pare che questo schema sia stato utilizzato anche per condizionare l’opinione pubblica e quindi gli elettori al tempo del referendum sulla Brexit.
Inevitabilmente, la questione è arrivata al Congresso degli Stati Uniti e Amy Klobuchar, senatore del Partito Democratico, ha affermato: “E’ una delle più grandi sottrazioni di dati personali della storia recente ed è necessario investigare su quanto accaduto, perché queste reti sociali, così stese e frequentate, non sono in grado di governare i processi interni e non sono in grado di assicurare le più elementari tutele al singolo utilizzatore”.
È probabile che venga chiesto al CEO di Facebook, Zuckerberg, di presentarsi davanti al congresso degli Stati Uniti per una relazione sui fatti.
Al senatore USA ha fatto eco Damian Collins, a capo della potente Commissione su Digitale, cultura, media e sport del Regno Unito: “Facebook ha evidentemente sottovalutato il rischio data breach al suo interno. Oltretutto, il social network sapeva che un’azienda stava raccogliendo in maniera inappropriata dati sugli utenti registrati per condividerli con terzi e non ha fatto nulla, se non muoversi tardivamente. Valuteremo se coinvolgere il Parlamento britannico in questa delicata faccenda”.