Oggi, la partita per il cyberspazio è giocata sugli investimenti, trattandosi di un panorama del tutto nuovo anche per i Paesi sviluppati. Di particolare importanza sono i livelli del digitale e delle infrastrutture, con il secondo che è più sensibile e influenzabile dalle logiche geopolitiche tradizionali.
Secondo un report di S&P Global Ratings, “gli attacchi informatici sono diventati un elemento chiave della geopolitica, coinvolgendo attori statali e non”. Effettivamente, se si osserva il conflitto tra Russia e Ucraina, si delinea una chiara linea indirizzata a una guerra ibrida che comprende sia l’azione militare sia quella cibernetica, con obiettivi chiave come infrastrutture o servizi essenziali.
Ciò è rilevante anche dal punto di vista finanziario: è evidente, infatti, come gli Stati caratterizzati da un tessuto politico-sociale più debole, economie meno diversificate e che si trovano a fronteggiare rischi geopolitici più elevati, siano più esposti a cyberattacchi.
Per questi, la possibilità di essere coinvolti in una guerra ibrida è sempre maggiore, e con essa aumenta il rischio di danni potenzialmente catastrofici al tessuto economico-sociale.
In questo contesto, è doveroso per gli Stati incrementare gli investimenti per la sicurezza informatica, la sicurezza e solidità dei sistemi informatici così come la rete a sostegno degli apparati sia statali che militari. Mentre i Paesi più avanzati tecnologicamente ed economicamente stanno già seguendo questa strada, i rischi maggiori sono chiaramente per gli Stati più di frontiera e in via di sviluppo che, essendo finanziariamente più deboli, risultano piuttosto limitati nella loro capacità di pianificazione e risposta alle minacce in maniera repentina ed efficace.
Su quali “settori cyber” si concentrano gli investimenti esteri?
Dall’inizio del ventunesimo secolo, si è assistito a un’imponente rivoluzione digitale che ha inevitabilmente investito anche la componente geografica e strategica delle Relazioni Internazionali. A livello geopolitico, ciò ha generato una forte vulnerabilità che ha modificato il Balance of Power tra gli attori del sistema internazionale. Nonostante la spinta generalizzante data dal processo di globalizzazione, gli Stati si stanno indirizzando verso il recupero della centralità nella gestione delle dinamiche di sicurezza e politico-economiche.
Oggi, la partita per il cyberspazio è giocata sugli investimenti, trattandosi di un panorama del tutto nuovo anche per i Paesi sviluppati. Di particolare importanza sono i livelli del digitale e delle infrastrutture, con il secondo che è più sensibile e influenzabile dalle logiche geopolitiche tradizionali.
Qui è possibile osservare due modus operandi diversi portati avanti dal blocco di Paesi occidentali da una parte e dalla Russia e Cina dall’altra, con i secondi che hanno concentrato le loro azioni in quelle aree del mondo non considerate di primaria importanza per gli equilibri internazionali, come l’Africa.
Nello specifico, il colosso asiatico ha costruito un agglomerato di reti in queste aree, agendo quindi a livello infrastrutturale. È stato anche effettuato un trasferimento di conoscenze che ha sì permesso un miglioramento delle condizioni economiche locali, ma ha inevitabilmente instillato una forte presenza cinese, utile soprattutto in questo contesto storico perché l’Africa è universalmente riconosciuto come un continente estremamente ricco di materie prime che stanno diventando la risorsa di riferimento del nuovo millennio. Al contrario, Mosca si è concentrata meno sulla costruzione di infrastrutture oltre confine, ma più sulla creazione di vere e proprie organizzazioni, come Killnet, che conducono campagne di attacchi nel cyberspazio, andando a potenziare quella che sembra quasi una vera e propria dottrina di guerra ibrida. Peraltro, questa è sostenuta da continue campagne di disinformazione, che sta diventando un serio problema anche in occidente.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti e l’Unione Europea, anch’essi rivestono un ruolo importante, sebbene meno “operativo”. I primi si stanno concentrando sulla riduzione degli spazi di manovra sia di Mosca che di Pechino, anche attraverso una forte spinta tecnologica capitanata dallo sviluppo di un’Intelligenza Artificiale (IA) applicata alla sfera militare e, parallelamente, cercando di controllare le catene del valore in settori chiave. Il tutto supportato dalla negazione ad altre nazioni dell’accesso a tecnologie chiave. Contemporaneamente, l’UE sta puntando a un potenziamento della sua capacità normativa a livello internazionale. Questo sia mediante l’implementazione di regolamentazioni con l’obiettivo di farli diventare degli standard globali, sia mediante iniziative come il “Global Gateway”, un piano strategico per la promozione e la realizzazione di connessioni intelligenti, pulite e sicure in vari settori come quello digitale, energetico o dei trasporti per rafforzare i sistemi in tutto il mondo.
L’inibizione di acquisizioni strategiche
Il mondo odierno è fortemente caratterizzato sia da una fitta rete di relazioni di varia natura, non soltanto economiche e politiche ma anche relative alla supply chain, sia da un’instabilità e da conflitti a livello mondiale che si stanno sempre più espandendo e intensificando. In questo contesto, tecnologia e digitale si sviluppano sulla base di considerazioni più generali che hanno reso necessario un potenziamento dell’intelligence politico-economica, sia nel settore privato che in quello pubblico, che ad oggi viene utilizzata come strumento per guidare i decision maker aziendali e statali verso soluzioni decisionali in linea con i cambiamenti geopolitici in atto.
Ciò è vero anche dal punto di vista normativo, che negli ultimi dieci anni ha subito una notevole evoluzione, specialmente per gli strumenti dedicati al monitoraggio. È bene considerare il meccanismo di screening per gli investimenti esteri (IDE o IED), su cui – attraverso il Regolamento 2019/452 – l’Unione europea ha stabilito, per motivi legati alla sicurezza o all’ordine pubblico, un “quadro di controllo” degli investimenti esteri diretti provenienti da Paesi terzi. Questo sistema ha la particolarità di affiancarsi a eventuali sistemi interni agli Stati membri e, attualmente, 18 Paesi dell’Unione Europea ne hanno sviluppato uno proprio (tra cui la Repubblica Ceca, la Danimarca, la Germania, la Spagna, la Francia, l’Italia, la Lituania, l’Ungheria, Malta, i Paesi Bassi, l’Austria, la Polonia, la Romania, la Slovenia, la Slovacchia e la Finlandia).
Ciò naturalmente non è sufficiente a tracciare un panorama completo. Sono da considerare anche le fusioni e acquisizioni in ambito tecnologico che vengono fatte da Paesi esteri che, nel solo 2021, hanno raggiunto la cifra di un trilione di dollari, mostrando un forte interesse da parte degli investitori stranieri. In particolare, la sicurezza informatica è diventata un tema sempre più rilevante, con un mercato italiano del valore di circa 1,5 miliardi di euro. Nel 2022, sono state annunciate centinaia di operazioni straordinarie in questo ambito in Europa, spesso coinvolgendo più Paesi. Un esempio è la vendita di una società italiana specializzata nella gestione di centri operativi di sicurezza a un fondo del Bahrein.
Il divieto di import, export e vendita di determinate tecnologie
Strettamente correlata è anche la tematica sull’import-export delle nuove tecnologie, non soltanto per le telecomunicazioni (si ricordi il ban sull’accesso alle tecnologie e l’accesso a queste imposto a Huawei nel maggio 2019 da parte del governo americano) che oggi sono solamente una piccola parte. La continua situazione di tensione, specialmente in Asia e per la precisione tra Cina e Taiwan, ha causato tensioni che hanno influenzato notevolmente le dinamiche commerciali internazionali dal 2018, quando l’amministrazione Trump ha dato il via a una guerra commerciale per 1300 categorie di prodotti cinesi e che prosegue tutt’oggi. La strategia americana di separazione dalla Cina, soprattutto per la produzione di chip e derivati da semiconduttori, ha avviando una generale ristrutturazione delle catene di produzione e dei valori delle imprese che ha avuto un impatto anche sul panorama economico-politico europeo. È recente la notizia che Intel abbia individuato proprio nell’Europa un polo d’investimento per la creazione di un sito di produzione di semiconduttori (in Germania), un sito di ricerca e sviluppo nonché progettazione (in Francia), entrambi affiancati da vari sistemi di fonderia e produzione back-end che saranno collocati in Irlanda, Italia, Polonia e Spagna. L’investimento iniziale sarà di 33 miliardi di euro e servirà sia per rendere più indipendente l’Europa dalla produzione di semiconduttori provenienti dai Paesi asiatici sia per sopperire alla sempre crescente domanda di questi nel mercato globale.
Parallelamente, anche la più grande fabbrica indipendente di semiconduttori al mondo, TSMC – Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, ha enormemente aumentato gli investimenti negli Stati Uniti (circa 40 miliardi di dollari) per la realizzazione di nuovi impianti produttivi ed è in piena trattativa con il governo di Joe Biden per l’eliminazione della doppia imposizione fiscale.
Questa serie di investimenti strategici, dichiaratamente mirati al togliere lo scettro all’Asia della produzione dei semiconduttori, unito a una guerra commerciale sempre più aspra, tanto da essere addirittura chiamata “Tech War” e che comprende sempre più divieti di export di chip ad alta tecnologia, è un chiaro segnale di come e dove si stia spostando il concetto di guerra oggi. Il conflitto armato in Ucraina ha messo ancor più in evidenza come la componente tecnologia sia, oggi più che mai, fondamentale.